Atto Costitutivo e Statuto della Associazione

L'Atto Costitutivo, lo Statuto della Associazione, la Scheda di Adesione sono pubblicati sotto la data del 2 febbraio 2013 di questo Blog

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sabato 25 marzo 2017

Balcani.

AGGIORNAMENTI

Elezioni
Bulgaria al voto sotto occhi di Mosca e Ankara
Francesco Martino
23/03/2017
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Risultato finale apertissimo, crescita dei movimenti populisti ed euroscettici, tensioni con la vicina Turchia, accusata di interferire col processo elettorale. In Bulgaria, la campagna per le elezioni politiche anticipate del 26 marzo volge al termine: domenica, gli elettori saranno chiamati a scegliere tra i candidati proposti da 13 partiti, 9 coalizioni e 21 comitati d'iniziativa popolare.

Al nuovo voto anticipato, ormai elemento ricorrente del ciclo politico bulgaro, si è arrivati dopo la pesante sconfitta subita alle presidenziali dello scorso novembre dal partito dall'allora premier Boyko Borisov, leader del movimento di centro-destra Gerb (Cittadini per uno sviluppo europeo della Bulgaria).

Dopo la larga vittoria dell'ex generale e comandante dell'aviazione militare Rumen Radev, lanciato dall'opposizione socialista, Borisov ha deciso di mettere fine anticipatamente al suo secondo mandato, come già avvenuto col suo primo esecutivo nel 2013.

Rimonta socialista?
Non è ancora chiaro, però, se la decisione di staccare la spina e presentarsi agli elettori dopo la parentesi del governo di garanzia guidato dal giurista Ognyan Gerdzhikov si rivelerà vincente. Gli ultimi sondaggi danno Gerb e il partito socialista (Bsp) - per la prima volta guidato da una donna, Korneliya Ninova - appaiati intorno al 27-30% dei consensi.

Per Gerb, il risultato rappresenterebbe una sostanziale tenuta, ma per il Bsp segnerebbe il raddoppio dei consensi (nel 2014 il partito si era fermato al 15,4%). Una crescita probabilmente segnata più dalla stanchezza dell'elettorato nei confronti di Borisov che dalla forza e credibilità delle promesse elettorali della Ninova, le quali ruotano intorno all'impegno di aumentare pensioni e stipendi, introdurre alcune misure protezionistiche e rilanciare i rapporti con Mosca facendo lobby contro le sanzioni anti-russe.

A meno di sorprese dell'ultima ora, e visto il relativo equivalersi delle forze in campo (in Bulgaria si vota con un sistema proporzionale, accompagnato da una quota maggioritaria) la vera questione riguarda la capacità dei principali contendenti di formare coalizioni di governo.

Al ruolo di ago della bilancia ambiscono anzitutto i Patrioti uniti, formazione che riunisce i tre principali movimenti nazionalisti ed euroscettici: la Vmro, il Fronte nazionale per la salvezza della Bulgaria e i filo-russi di “Ataka”. Con un risultato previsto al 10% dei voti, stavolta i nazionalisti – dopo aver già sostenuto in passato vari esecutivi, ma sempre dall'esterno – si candidano quindi al ruolo di partner di governo a tutti gli effetti.

A rafforzare le loro posizioni è il dibattito arroventato su migranti e rifugiati, che nelle settimane della campagna elettorale ha portato a diversi episodi di xenofobia e intolleranza. Frontiera esterna dell'Unione europea, Ue la Bulgaria teme di dover sostenere le conseguenze di una possibile riapertura della rotta balcanica, soprattutto visti i timori di un possibile cedimento degli accordi tra Ue e Turchia (che l'avevano chiusa nel marzo 2016), oggi ostaggio dello scontro frontale in corso tra Ankara e il blocco europeo.

Turchia accusata di ingerenza
Come se non bastasse, il governo turco è stato apertamente accusato da Sofia di ingerenza nella campagna elettorale, attraverso la propria influenza sulla numerosa minoranza turca (attorno al 10% della popolazione) presente nel Paese. Dall'introduzione del sistema democratico, il voto dei turchi di Bulgaria è stato monopolizzato dal Movimento per i diritti e le libertà (Dps), partito più volte al governo, dominato dal suo primo segretario Ahmet Dogan e criticato da più fronti per la sua gestione opaca ed oligarchica del potere.

In questa tornata elettorale, però, per la prima volta il Dps sembra avere un serio concorrente nel movimento Dost, creato dall'ex leader del Dps Lyutvi Mestan, espulso rocambolescamente da Dogan a inizio 2016. Nonostante le smentite di Mestan, Dost sembra avere fortissime entrature alla corte del presidente turco Recep Tayyp Erdogan, e il governo di Ankara ha messo il proprio peso al servizio del nuovo partito, facendo opera di convincimento soprattutto all’interno della numerosa comunità di turchi di Bulgaria che vivono in Turchia.

Un atteggiamento che ha provocato la reazione stizzita del governo bulgaro, che nelle settimane scorse ha convocato l'ambasciatore turco a Sofia e ha accusato Ankara di interferenza negli affari interni del Paese. Sono seguite teatrali proteste dei partiti nazionalisti, che nei giorni scorsi hanno bloccato la frontiera bulgaro-turca. Obiettivo dichiarato, impedire il tradizionale “turismo elettorale” con cui una parte dei cittadini turco-bulgari residenti in Turchia torna - spesso in forma organizzata e gestita dai partiti della minoranza - nei propri luoghi d'origine per recarsi alle urne.

Secondo i sondaggi, il Dps (che oggi insiste sul suo ruolo “patriottico” contro le influenze di Ankara), dovrebbe comunque superare la soglia di sbarramento del 4%. I risultati di Dost sono invece più difficili da prevedere, e dipenderanno in misura importante dal voto nelle sezioni istituite in Turchia.

Il Trump di Sofia
Immancabile, come in tutte le tornate elettorali degli ultimi anni, l'elemento più marcatamente populista, che stavolta vede protagonista il discusso businessman Veselin Mareshki, già ribattezzato dal New York Times “il Donald Trump di Bulgaria”, e in grado di raccogliere l'11% dei voti nelle recenti presidenziali.

Col suo movimento “Volontà”, Mareshki punta a ritagliarsi un ruolo importante come potenziale partner di minoranza di un prossimo esecutivo (viene dato al 5-6%). Dopo aver costruito un impero con una catena di farmacie – che spesso offrono medicinali a prezzi più convenienti della concorrenza –, Mareshki ha lanciato una sua battaglia personale contro i “cartelli che dominano l'economia bulgara”.

Per dimostrare di fare sul serio, dieci giorni prima delle elezioni, Mareshki ha aperto a Sofia uno dei più grandi distributori di carburante al mondo, con prezzi ribassati di circa dieci centesimi di euro al litro. “Sofia, congratulazioni, oggi sei stata liberata!”, ha esclamato Mareshki all'apertura: la sua speranza è che il motto “Io non prometto, realizzo”, possa conquistare il cuore e il portafogli di molti cittadini bulgari, tanto come clienti quanto come elettori.

Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra l'Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso.

Francesco Martino, Laurea in Scienze della comunicazione presso l'Università degli Studi di Trieste, ha lavorato nella cooperazione internazionale in Kosovo prima di dedicarsi al giornalismo. Dal 2005 vive e lavora a Sofia, da dove ha collaborato con varie testate italiane e internazionali. Giornalista professionista lavora a Osservatorio Balcani e Caucaso dal 2006.

martedì 21 marzo 2017

Come alimentare il Caos mondiale.

Usa e commercio internazionale
Addio di Trump al Wto?
Laura Mirachian
16/03/2017
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Forse gli europei decideranno di aumentare i loro bilanci per la difesa per sventare il disimpegno degli Stati Uniti dalla Nato, e probabilmente si doteranno anche di nuovi strumenti di sicurezza.

Ma sulla politica commerciale ci sarà poco da fare per evitare il collasso dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), pilastro e garante delle regole degliscambi internazionali, se Trump darà seguito ai propositi di abbandonarla, dissociandosi dall’organismo di risoluzione delle controversie.

Ideato, non a caso, nel contesto della liberalizzazione globale sancita nel 1994 a conclusione dell’Uruguay Round, il meccanismo è stato creato con l’obiettivo di evitare guerre commerciali, sanando i contenziosi mediante la pronuncia di un panel di esperti selezionati per consenso, cui tutti gli Stati, senza differenziazione alcuna, sono tenuti ad adeguarsi. Si prevedono compensazioni per il danno subito dalla controparte e, se del caso, la modifica della legislazione nazionale in violazione delle regole comuni.

La fine di un’epoca
Questo organismo è più di altri simbolico del clima di un’epoca, quella appunto della liberalizzazione globale. Regole valide per tutti, rimedi applicabili ugualmente a tutti. Un regime in teoria egalitario, ma che di fatto avrebbe premiato gli interessi dei grandi protagonisti del commercio mondiale - l’Occidente e, in particolare, Washington -, in grado di far valere la propria supremazia nei rapporti di forza.

L’emergere di altri protagonisti (in primis la Cina, che ha aderito al Wto nel dicembre 2002), e la loro assertività nella difesa dei propri interessi, hanno scardinato un funzionamento che era dato per scontato.

Più di una volta, gli stessi Stati Uniti sono stati ripresi per la loro condotta commerciale e invitati ad adeguarsi: valga per tutte, la bocciatura delle misure anti-dumping sulle importazioni di acciaio dalla Cina, adottate a fronte di forti pressioni dei produttori nazionali. Nel caso in cui, tra l’altro, la Cina dovesse acquisire lo status di “economia di mercato” (cui aspira nonostante le carenze dei suoi comportamenti rispetto alle regole liberali e l’opposizione europea), sarà molto più difficile ricorrere a misure difensive per contrastarne le violazioni.

America first!
Il sistema multilaterale degli scambi aveva già perso slancio con l’incalzante tendenza al regionalismo, in particolare con i vistosi progetti lanciati dall’amministrazione Obama: il Tpp, già negoziato con dieci paesi del Pacifico (esclusa la Cina), e il negoziando Ttip con l’Europa.

Ma Trump va drasticamente oltre. “Il Wto è un disastro” aveva preconizzato durante la campagna elettorale; e le nomine di esperti notoriamente sulla stessa lunghezza d’onda come Wilbur Ross, Robert Lighthizer e Peter Navarro ai posti chiave della politica commerciale hanno confermato il giudizio della prima ora.

Hanno fatto seguito il tempestivo ritiro dal Tpp e l’accantonamento del Ttip (che peraltro preoccupava molti europei soprattutto con riferimento agli standard sanitari e ambientali), nonché il continuo richiamo all’imposizione di dazi laddove le importazioni vengano ritenute a detrimento dei lavoratori americani o della valorizzazione di risorse locali.

Il commercio, prima ancora delle spese per la Nato - e della disaffezione, già annunciata, verso Onu, Consiglio diritti umani, Agenzia per i rifugiati, Agenzia per i palestinesi ed altre organizzazioni multilaterali -, è destinato ad essere un test del proclamato principio “America first” e della fine dell’ordine commerciale mondiale un tempo governato e difeso anzitutto da Washington.

Mani libere. D’ora in avanti, se il documento annuale sulla politica commerciale inoltrato dall’amministrazione Trump al Congresso dovesse passare, l’America applicherà i propri strumenti legislativi (le sezioni 201 e 301 del Trade Act del 1974) che prevedono la possibilità di aumentare le tariffe doganali o imporre quote di importazione o altre sanzioni in caso di comprovato danno o di pratiche commerciali scorrette secondo un giudizio nazionale esclusivo.

Le conseguenze per l’Ue
Non sfugge il potenziale dirompente di un tale approccio per l’Europa, che ha fatto del multilateralismo e delle regole multilaterali un asse portante delle sue pratiche commerciali, e che si accinge a identificare nella crescita economica e nell’occupazione i pilastri del suo rilancio.

Perché una contrazione dei commerci internazionali indotta dal protezionismo americano avrebbe inevitabilmente conseguenze vistose sulle economie di altri Paesi, determinando un circuito vizioso di risposte e contro-risposte. Guerre commerciali? Forse, ma quantomeno uno scenario di incertezza e instabilità dei mercati che per definizione rappresenta un problema per gli operatori economici, compresi quelli dei Paesi commercialmente più attrezzati.

Angela Merkel non potrà non evocarne i termini, anche per conto dell’Europa, nella sua missione negli Stati Uniti. Tra l’altro, ironia della sorte, la Gran Bretagna, nel lasciare il mercato unico europeo, sta puntando proprio sul recupero della sua proiezione commerciale mondiale nel momento in cui un partner di tale rilievo ripiega sul protezionismo.

Vi è chi rileva che oggi gli Stati Uniti hanno deficit commerciale con oltre 100 Paesi. Come dire che il fenomeno è strutturale, che la domanda al consumo eccede l’offerta, e che barriere imposte a un Paese potrebbero tradursi in aumento del deficit con altri.

Senza contare che gran parte della produzione avviene ormai tramite le catene del valore transnazionali, sviluppatesi appunto con la liberalizzazione globale dei mercati cui proprio l’organismo di risoluzione delle controversie ha inteso porre un argine. Un cambiamento radicale di passo da parte americana, ove effettivamente applicato, equivarrebbe a una rivoluzione epocale.

Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante permanente presso l’Onu, Ginevra.

mercoledì 8 marzo 2017

Quaderni del Nastro Azzurro. Invito


 Presso la Sede Nazionale a Piazza Galeno1 il giorno 23 marzo 2017 sarà presentato il n. 3/ 4 2016 dei Quaderni